Interrogarsi su che cosa sia "normale" e cosa "patologico" potrebbe sembrare scontato: quante volte, nel linguaggio comune, sentiamo dire “non è normale!” oppure “è un caso patologico”, per fare alcuni esempi.
Il concetto del "normale" sembra frequentemente associato a qualcosa che viene ritenuto abituale, convenzionale, atteso, standard.
COS'E' NORMALE?
Con quali parametri possiamo definire questo "standard" di normalità?
Nel vocabolario Treccani, si esplicita l’origine latina del termine (da normalis ossia perpendicolare), il cui significato è direttamente connesso a quello etimologico di norma, che in latino indicava una “squadra” da falegname.
Come conseguenza di un significato all'origine così specifico, oggi “normale” si associa a tutto ciò che ha una sua regolarità, qualcosa che è abitudinario, tipico, comune, conforme. Non a caso, nel vocabolario viene fornita una definizione più ampia del termine che si riferisce proprio all'atto di seguire le norme, conformarsi a esse e di conseguenza essere consueto e ordinario.
In statistica esiste la Curva Gaussiana, definita Curva normale, considerata assolutamente prevedibile e perfetta, e su di essa si distribuiscono tutte le misurazioni che vengono effettuate, comprese le deviazioni dalla media statistica che si localizzano ai due lati della curva.
Tuttavia, ciò che la campana non indica è dove finisca la normalità e dove inizi l’anomalia. Un fenomeno potrebbe risultare statisticamente normale (nella norma) per via della frequenza con cui si presenta (es. l’omicidio) e nonostante ciò non poter minimamente essere tollerato e accettato dal contesto sociale nel quale lo si osserva.
Secondo Frances (2013) per sapere cosa è normale, dovremmo sapere cosa non lo è. Perveniamo a una tautologia, dal momento che la definizione di normale si appoggia su quella di a-normale, e viceversa.
E SE "NORMALITA'" E "PATOLOGIA" DIPENDESSERO DALL'OCCHIO DI CHI GUARDA?
Nel suo lavoro Il normale e il patologico (1966), Georges Canguilhem sostiene che la valutazione della gravità di un’anomalia risiede nel giudizio del soggetto che la esperisce, il quale qualifica la vita e gli elementi che la favoriscono o la contrastano.
La centralità del giudizio della persona nel connotare una condizione come normale o patologica, disconferma l’ipotesi largamente diffusa e accettata che il patologico derivi linearmente dal fisiologico, dal corpo.
L’esperienza della malattia, del disagio, inizierebbe nel momento in cui la persona qualifica una condizione come patologica, problematica, invalidante. L’uomo infatti costruisce continuamente la propria esperienza e i significati a essa correlati (Kelly, 1955).
Una tendenza umana è quella di etichettare, trovare un nome ai fenomeni, nel tentativo di conoscerli e comprenderli, raggruppandoli in categorie. Purtroppo negli anni la concezione del patologico e, nello specifico, di malattia mentale si è andata sempre più a definire entro parametri ed etichette che pretendono di assumere lo statuto di verità oggettive: è il caso dei sistemi classificativi diagnostici.
IL MITO DELLA MALATTIA MENTALE (T.S. SZASZ)
Già nel 1960, Thomas S. Szasz si era interrogato su quello che ha definito "il mito della malattia mentale": il concetto di malattia sembrerebbe implicare la deviazione da una norma, ma, a definire la norma e la deviazione da essa, è il paziente o un’altra persona per lui (per esempio un professionista dalla salute mentale), e tale definizione può risentire della società, del contesto sociale ed etico nel quale è prodotta.
Infatti, affermare che X sia un sintomo mentale implica l’emissione di un giudizio da parte di un osservatore che risente del contesto nel quale è immerso.
Il problema, per Szasz, è che sotto il nome di malattia mentale sono stati inclusi i cosiddetti “problemi del vivere” (problems of living), che meriterebbero, oltre che una dicitura più appropriata, un approccio non-medico.
Ai giorni nostri poi, l’immaginario della sofferenza ha continuato a essere patologizzato e medicalizzato. Nel suo libro Primo, non curare chi è normale, Allen Frances (2013) parla del dominio delle etichette diagnostiche introdotte dai noti manuali sui disturbi mentali. L’affermarsi predominante dei manuali diagnostici, riferimenti molto accreditati, oggi possono aver incoraggiato la medicalizzazione delle condizioni più disparate, nonché l’omogeneizzazione del mondo.
Siamo sempre meno capaci di sopportare le differenze e le eccentricità individuali e tendiamo a trasformarle in malattie medicalizzandole. […] La nostra società sta diventando sempre più perfezionista. Non riuscire a essere perfettamente felici o a avere una vita priva di preoccupazioni viene troppo spesso tradotto in malattia mentale (Frances, 2013).
IL RUOLO DEL LINGUAGGIO
Il dilagare dell’iper-applicabilità delle diagnosi psichiatriche e della cultura della malattia mentale sembrano aver travolto la nostra società e influenzato le modalità con cui le persone tendono a interpretare e narrare sé stesse.
Il disagio umano si configura infatti anche sulla base del linguaggio che viene utilizzato per descriverne e spiegarne la sofferenza, le parole aiutano a interpretare, dare un senso e regolare l'esperienza.
Brinkmann (2014) riconosce il ruolo metanarrativo del linguaggio e la sua mediazione semiotica nella comprensione del mondo: l’uso di segni e simboli incide sulla persona e sull’identità come già Bruner aveva ipotizzato. Qualsiasi discorso rende possibile un set di risposte alle preoccupazioni umane, ma contemporaneamente preclude altri tipi di comprensione e di risposte al problema (Strong, Ross, Sesma-Vazquez, 2014).
Inquadrare la sofferenza in termini di sintomi elencati in un manuale diagnostico, fenomeno largamente diffuso nella società attuale, ha reso accessibile un’unica chiave di lettura, appartenente al linguaggio diagnostico, che concerne al suo interno specifici criteri, punti di vista e soluzioni.
In questo modo la vita, le emozioni e i vissuti tendono a essere inquadrati unicamente in una cornice psichiatrica. Concettualizzare le difficoltà psicologiche (timidezza, tristezza, sentimenti di colpa, ecc.) esclusivamente come malattia mentale medicalmente trattabile comporta il rischio di promuovere modi invalidanti di costruire sé stessi e di attribuire significato alla propria esperienza.
Il linguaggio diagnostico può relegare al ruolo di malato, e addirittura somigliare a una prescrizione su come vivere la propria vita.
Il metodo narrativo sui linguaggi della sofferenza (Ross e colleghi, 2014) e in generale l’approccio costruttivista offrono la possibilità di far emergere ed esplorare i significati personali, ri-costruire una narrazione di sé non necessariamente ancorata al gergo diagnostico/patologico, e soprattutto di riconoscersi artefici del significato che si attribuisce alla propria esperienza di vita.
BIBLIOGRAFIA
Brinkmann, S. (2014). Languages of suffering. Theory & Psychology, 24, 630-648. DOI: 10.1177/0959354314531523
Canguilhem, G. (1966). Il normale e il patologico. Norme sociali e comportamenti patologici nella storia della medicina. Rimini: Guaraldi Editore.
Frances, A. (2013). Primo, non curare chi è normale. Contro l’invenzione delle malattie. Torino: Bollati Boringhieri Editore.
Guerra, G. (1997). Mente e scienze della vita. Un’introduzione alla psicologia. Roma: Nuova Italia Scientifica.
Guerra, G. (2003). Autonomy and Constructivism, European Journal of School Psychology, 1,1, 97-118, qui pag. 1-6; 9-13)
Guerra, G. (2006). Contesti di vita e salute. In Mauri, A. e Tinti, C. (a cura di) Psicologia della salute. Torino: UTET.
Strong, T., Ross, K.H., Sesma-Vazquez, M. (2015). Counselling the (self?) diagnosed client: generative and reflective conversations. British Journal of Guidance & Counselling, 43:5, 598-610, DOI: 10.1080/03069885.2014.996736
Szasz, T.S. (1960). The myth of mental illness, The American Psychologist, 15(2), 113-118
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